Torneranno le Banche di una volta?

di Salvatore Carrano*

      Dopo l’unità d’Italia e all’incirca fino al primo ventennio del novecento, il sistema bancario italiano, similmente a quello di altri stati liberisti esercitava, senza significative imposizioni e privo di sistematici controlli, un’attività creditizia improntata ai soli criteri aziendalistici perseguendo autonomamente le proprie finalità. Le banche, strutturate secondo il modello tedesco, compivano operazioni sia a breve e sia a lungo termine, possedevano liberamente quote di partecipazioni delle imprese e non avevano obblighi di riserve di liquidità per tutelare i depositi dei risparmiatori. Nell’immediato primo dopoguerra, soprattutto a causa dei prestiti concessi alle imprese impegnate nella produzione di materiale bellico che non ebbero la capacità di riconvertirsi, alcuni istituti di credito si trovarono a dover affrontare problemi di liquidità per le difficoltà che incontrarono nei rientri dei finanziamenti. E, infatti, l’Ansaldo, azienda leader nella produzione di armi del periodo, alle prese con la riconversione dell’industria bellica, nel 1921, nell’impossibilità di restituire i debiti contratti, contribuì in modo determinante al dissesto della controllata banca creditrice BIS (Banca Italiana di Sconto). Il disastroso fallimento convinse i legislatori ad approvare norme nel settore del credito che dessero stabilità alle banche, evitassero nuove catastrofi e proteggessero i depositi dei risparmiatori. La crisi globale del ’29, poi, obbligò il governo a intervenire rapidamente e drasticamente per evitare il tracollo dell’economia nazionale. Nacque nel 1931 l’IMI (Istituto Mobiliare Italiano) e successivamente, nel 1933 l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale). L’IMI aveva il compito di promuovere lo sviluppo dell’economia attraverso la concessione di finanziamenti ai grandi progetti industriali e alle iniziative volte alla crescita delle piccole e medie imprese; l’IRI, nacque per rilevare i pacchetti azionari delle imprese detenute dalle banche di interesse nazionale. Seguirono interventi di volta in volta mirati a contrastare situazioni di necessità, e solo nel 1936 si arrivò a una riorganizzazione complessiva del sistema bancario italiano disciplinando l’operatività temporale del credito e regolamentando con inflessibili limitazioni le partecipazioni delle banche nel capitale delle imprese industriali. La riforma del ’36 poggiava sui principi fondamentali della “specializzazione temporale del credito”, della “separatezza” e del “pluralismo istituzionale”. Con la “specializzazione temporale” le banche vennero classificate in banche ordinarie, che potevano compiere operazioni con la clientela fino a 18 mesi e banche di credito speciali, che operavano sui crediti a medio e lungo termine. Il “principio della separatezza” sottopose al controllo della Banca d’Italia le partecipazioni delle banche nelle imprese industriali e con il “pluralismo istituzionale” le banche vennero distinte in pubbliche e private. Anni di relativa stabilità, il miracolo economico e soprattutto i recepimenti di direttive comunitarie tendenti a uniformare l’attività bancaria per renderla più competitiva, spinsero già dai primi anni 80 i governi a cercare, per gli enti creditizi, nuovi modelli giuridici societari e forme organizzative più efficaci e moderne per affrontare la concorrenza delle grandi banche europee. Questa necessità di ristrutturare il sistema creditizio, unitamente all’esigenza di recepire regolamenti e direttive comunitarie, decretò la sostanziale fine dell’ormai obsoleta legge del ’36 e con essa, l’abbandono e la sconfessione dei principi della “specializzazione temporale del credito”, del “pluralismo istituzionale” e della “separatezza tra banca e impresa”. Tutto tornò un po’ come prima del ’36, ma con una più attenta – ma non troppa in alcuni casi – vigilanza da parte degli organi di controllo. Per  maggiori dettagli sulla legislazione prodotta per il superamento della vecchia legge bancaria si veda il mio lavoro sulla nascita delle fondazioni bancarie https://www.sepenso.it/genesi-normativa-e-stato-attuale-delle-fondazioni-di-origine-bancaria/

E adesso? Corrono voci di un possibile ritorno alla prima riforma del ’36, ritorno che ripristinerebbe sia il modello inglese, con la “specializzazione temporale”, e sia la “separatezza”. Se così fosse, avremmo di nuovo la differenziazione tra banche di credito ordinarie, che possono operare a breve termine, e banche di credito speciale, alle quali è consentito di compiere operazioni creditizie a medio e lungo termine. Inoltre, ci sarebbe la reintroduzione di una rigida limitazione delle partecipazioni bancarie nelle imprese. Il clamoroso fallimento della SVB – Silicon Valley Bank e il fallimento salvato con la “fusione assistita” della svizzera CS – Credit Suisse, sono tra le principali cause che alimentano le voci della riabilitazione di alcuni principi abbandonati da decenni.

Utilizzare il denaro dei risparmiatori (perlopiù depositi a breve termine) per finanziare le imprese (in genere prestiti a medio e lungo termine) può generare il cosiddetto “effetto gregge”. Il fenomeno si verifica quando i risparmiatori, spaventati da notizie poco rassicuranti sulla salute della propria banca, si precipitano agli sportelli per ritirare i propri risparmi prima che la stessa banca sia dichiarata insolvente. La “corsa agli sportelli” provoca una carenza di liquidità che costringe la banca a rifiutare, per impossibilità, il rimborso delle somme raccolte.  In pratica si crea uno squilibrio finanziario che senza una commisurata iniezione di liquidità porta inevitabilmente al fallimento dell’istituto di credito. E, infatti, SVB, che non ha ricevuto aiuti, è fallita; CS, grazie agli svariati miliardi di franchi dello stato elvetico concessi per la sua ristrutturazione, seppur “sotto mentite spoglie”, continua a esistere. Una concordanza delle scadenze tra operazioni di raccolta e operazioni di impiego proteggerebbe, anche se si dovesse verificare la corsa agli sportelli, la banca dallo squilibrio finanziario. E, allora, il principio della “specializzazione temporale del credito”, sarebbe la panacea per i mali di solvibilità delle banche?

L’effetto gregge, appunto, è un fenomeno, causato da verosimili notizie di un imminente e probabile dissesto finanziario della banca presso la quale i risparmiatori hanno depositato il proprio denaro. L’effetto è rappresentato magistralmente in Mary Poppins, un capolavoro della cinematografia animata che, pur con una causa generatrice esasperata e un po’ grottesca, trasmette allo spettatore lo stato d’animo trepidante e agitato dei risparmiatori in panico per la paura di non riuscire a prelevare le somme depositate. Si comporteranno anche da “gregge”, ma come dar torto ai preoccupati risparmiatori che, venuti a conoscenza dell’’instabilità della propria banca, si precipitano agli sportelli nella speranza di poter rientrare in possesso delle somme depositate? Ma “l’effetto gregge” è pur sempre un effetto, un sintomo da intendere come una spia che segnala un’anomalia. “L’effetto gregge” è come la febbre, si manifesta in presenza di cause morbose come risposta a situazioni di pericolo. E allora si può decidere di combattere il sintomo, oppure agire sulla causa che l’ha provocato. La medicina è solita prima indagare e poi agire sulle cause, e comportandosi in modo analogo, la disamina delle due banche menzionate ci rivela che:

Inoltre, nel 2008, la Lehman Brothers, alla ricerca di profitti sempre più alti, decretò la sua fine a causa di uno sciagurato uso degli strumenti speculativi. Non un “principio”, ma i subprime causarono il fallimento della banca.

Una gestione più avveduta e assennata sicuramente avrebbe evitato le catastrofi bancarie menzionate, ma è pur vero, però, che la separazione tra credito a breve termine e credito a lungo termine, avrebbe consentito ai depositanti di non perdere i propri risparmi. Se le banche fossero obbligate al rispetto della concordanza delle scadenze, per i risparmiatori, il rischio di non poter prelevare le somme depositate sarebbe pressoché trascurabile. La “separatezza” tutela i risparmiatori, ma non garantisce, nello stesso tempo, anche la buona salute della banca e, semmai, contribuisce a rendere meno redditizia l’attività di intermediazione. Il ripristino della “separatezza”, infatti, farebbe crescere i costi delle operazioni bancarie per i clienti e aumenterebbe ulteriormente il costo dei finanziamenti per le imprese.

Negli ultimi decenni la normativa sul credito ha favorito le concentrazioni bancarie al fine di poterle rendere più forti a reggere la concorrenza, ha anche invogliato scelte gestionali mirate a offrire alla clientela condizioni economiche sempre più vantaggiose (costi accessori, pagamenti, prelievi, spese di tenuta c/c praticamente azzerati) e ha tollerato operazioni di investimento speculative assai lucrose e non meno rischiose (i subprime ad esempio).  Le concentrazioni hanno generato colossi “too big to fail”; le vantaggiose offerte alla clientela hanno costretto le banche a inventarsi nuove e redditizie forme di investimenti e la necessità di ottenere profitti soddisfacenti, ha fatto crescere enormemente i rischi connessi alle operazioni di impiego fondi.

Parafrasando A. de Toqueville, ci sono anni in cui l’economia riposa e sembra voler riprendere fiato, i consumi frenano, le imprese riducono investimenti, produzione e personale e le banche faticano a generare profitti con le tradizionali operazioni di impiego fondi; è il tempo di una politica monetaria espansiva e della lotta alla “specializzazione”. Ve ne sono altri in cui le economie sono tormentate da dissesti bancari così gravi che si pensa di regolamentare rigidamente sovvenzioni, finanziamenti, operazioni creditizie e tutela del risparmio; è il tempo di una politica monetaria restrittiva e della lotta alla “despecializzazione”.

26 aprile 2023

Salvatore Carrano

*Docente di Economia Aziendale (fino al 2019) saggista di economia, finanza, banche e fintech. 

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